Carissimi,
Oggi è facile che il Natale si celebri sempre più lontani dal Vangelo. Per questo spesso è un Natale vuoto, vuoto di senso, vuoto di amore.
Vorrei riflettere con voi su due livelli:
Il primo è il collegamento diretto con la Parola: quei tre versetti del prologo di Giovanni, essenziali, scarni, stagliati: c’è il Verbo, la carne, i suoi che non lo accolgono, altri che diventano figli di Dio. E poi san Paolo, che nella lettera ai Galati parla di “pienezza del tempo”. “Dio ha riempito di sé la storia: quel bimbo nato da donna ne è il segno concreto. Vitalità infinita in queste parole! Gli uomini possono trarne il diritto di assumere la stessa ricchezza di quel bambino e chiamare Dio “babbo”, con la meraviglia della prima volta in cui riuscimmo a pronunciare questa parola o con l’emozione di quando, sempre per la prima volta, l’abbiamo sentita rivolta a noi. Dio nostro padre, Gesù nostro fratello! E noi suoi eredi, tutti. Ogni persona – anche chi bussa alla porta della nostra casa e del nostro cuore – che viene tra noi diventa cenno, è presenza di Lui!.

Poi c’è il secondo livello ed è una riflessione che scaturisce dalla contemplazione del presepe. La capanna, due pali e una trave, la stalla… tutta strapazzata, le figure quasi lacere…e quel bambino nudo si staglia sicuro, in ginocchio davanti a chi va verso di lui. E poi i pastori, il vecchietto col bastone, il nonno, la nonna coi nipotini per mano. Natale è anche questo andare confuso verso di Lui. Insieme. Poi la contemplazione di Maria e Giuseppe, immaginandosi la trepidazione con cui avranno atteso Gesù, ma anche le traversie, la fuga, le difficoltà. Eppure tutto passa, tutto diventa pace dinanzi a quel Bambino, perché il re della storia adesso è lui.

Questo è il Natale che vi auguro di vivere: un Natale fatto di contemplazione, di “gioia meravigliata”: Non avere paura ad incontrarlo così, a ripensarti così: figlio ed erede!” Il Natale scriveva Paolo VI: “non è una favola recitata da tutta una città, né un giorno festoso e profano come altri, ma festa e letizia, che i bambini possono provare nella istintiva certezza, recata dal grande fratellino Gesù, sulla bontà della vita, sulla bellezza e sul valore d’avere una culla, una madre, una comitiva di anime buone intorno all’infanzia, un canto di angeli sopra la scena umana, per povera e disadorna che sia. Il Natale è, per il cristiano, conforto e valorizzazione di ogni suo operare e di ogni suo soffrire”.

“Lui – dice Paolo VI – è venuto in mezzo a noi e per farsi conoscere, per farsi direi afferrare da noi si è fatto nostro fratello, si è fatto uno di noi, si è rivestito di carne umana, si è fatto uomo, per venire proprio a essere nostro amico, nostro collega, nostro compagno. Per darci confidenza! Dio avrebbe potuto venire vestito di gloria, di splendore, di luce, di potenza, a farci paura, a farci sbarrare gli occhi dalla meraviglia. No, no! È venuto come il più piccolo degli esseri, il più fragile, il più debole. Perché questo? Ma perché nessuno avesse vergogna ad avvicinarlo, perché nessuno avesse timore, perché tutti lo potessero proprio avere vicino, andargli vicino, non avere più nessuna distanza fra noi e lui.

C’è stato da parte di Dio uno sforzo di inabissarsi, di sprofondarsi dentro di noi, perché ciascuno, dico ciascuno di voi, possa dargli del tu, possa avere confidenza, possa avvicinarlo, possa sentirsi da lui pensato, da lui amato… da lui amato: guardate che questa è una grande parola! Se voi capite questo, se voi ricordate questo che vi sto dicendo, voi avete capito tutto il Cristianesimo”.
Buon Natale!

Il vostro vescovo

Giovanni D’Ercole