In occasione della giornata del volontariato, il 5 dicembre, condivido la riflessione di un amico. Da oltre trent’anni in questa data si celebra la giornata mondiale del volontariato. Una parola che evoca -a seconda delle esperienze di ciascuno- immagini molto diverse: chiassosi ragazzi che puliscono giardini, medici che curano persone in villaggi africani, attempate signore che distribuiscono pasti ai barboni, studenti che fanno volantinaggio per sensibilizzare sul riscaldamento globale, persone che dedicano tempo a visitare malati o carcerati, maestre in pensione che insegnano italiano agli immigrati e tante altre espressioni che toccano l’assistenza, la cultura, la ricerca, l’arte.
Al netto delle critiche che periodicamente il volontariato suscita: ambiguità, ingenuità, velleitarismo, sfruttamento, supplenza… a volte meritate ma più spesso figlie di pregiudizi o di superficialità, cosa accomuna le diverse esperienze nelle quali il volontariato si declina? Cosa spinge le persone a spendere volontariamente tempo, energie e competenze al di fuori della normale dinamica dei rapporti lavorativi, della produzione del reddito e dell’utilizzo ludico del tempo libero?
Se penso all’esigenza di vivere in una società più giusta temo sia troppo buonista.
Se mi riferisco al desiderio di vivere in una cultura più bella temo sia troppo radical chic.
Se dico la voglia di ripristinare un equilibrio che si percepisce compromesso temo sia troppo psicanalitico.
Allora dico che non lo so e che non è poi così importante saperlo: quello che conta è però che persone così esistano e che continuino ad esistere. Sono le persone capaci di passare dal “bisognerebbe fare qualcosa” al farlo, dal “ma possibile che nessuno…” al “me ne occupo io”, da “sarebbe bello” a “è bello”. Il volontariato è una sorta di carburante sociale, è coscienza critica credibile che evidenzia le carenze meno appariscenti, è energia che accende relazioni che rimarranno sconosciute a chi non ha mai frequentato i suoi territori.
Ho provato a immaginare una società in cui nessuno facesse volontariato, in cui i rapporti umani fossero esclusivamente quelli dovuti, contrattuali e istituzionali, in cui l’unico criterio fosse il saldo tra ciò che devo e ciò che mi è dovuto e mi ha preso un profondo senso di aridità. C’è bisogno di acqua che fertilizzi la storia, di opportunità che consentano a tutti, e soprattutto ai giovani, di liberare le potenzialità positive che hanno dentro prima che marciscano lasciando solo rancore e insoddisfazione. Il volontariato, con tutti i suoi limiti, può essere l’acqua che fertilizza: è meglio un prato disordinato che un cortile recintato.