È un grido di dolore e un appello accorato quello che si leva da 132 editori radiofonici interpellati sulle conseguenze della pandemia. In piena emergenza, hanno potenziato l’informazione, promosso raccolte fondi e svolto un ruolo di coesione sociale. Ma gli aiuti del governo sono in ritardo: dopo la promessa (cancellata) di 40 milioni di euro in febbraio, ne sono stati stanziati 50 il 19 maggio nel “Decreto rilancio” (complessivi, però, per radio e tv).
L’operato del governo e le regole con le quali verranno distribuiti i fondi, però, viene approvato solo da un editore: due radio su tre (65%) chiedono ulteriori aiuti, immediati e a fondo perduto (40%). Il calo della pubblicità, del resto, è drammatico (-73%) e per far quadrare i conti sono stati necessari tagli dolorosi, congedando collaboratori e chiedendo la cassa integrazione per una parte del personale.
Per valutare l’impatto della crisi Radio Reporter ha posto domande precise su questi aspetti e chiesto se per ridurre immediatamente i costi aziendali avrebbe senso dimezzare le potenze dei trasmettitori: i consumi di energia assorbono il 45% delle risorse di un’emittente, quindi i risparmi sarebbero superiori a un quinto del bilancio. Una soluzione che oltre ad essere a costo zero per il governo, migliorerebbe la qualità dell’ascolto (riducendo le interferenze) e abbatterebbe l’inquinamento elettromagnetico.
Il malessere è emerso da diversi editori: dubbiosi, sfiduciati, dei quali molti stavano seriamente valutando di chiudere. Sul crollo degli spot sono tutti d’accordo: in media è stato del 73%. A risentirne meno sono le 22 commerciali di ambito regionale (-70%) e le 31 comunitarie (-71%). Va peggio per i network e le multi regionali (-80%). Ma questa è solo la punta dell’iceberg: dalle risposte degli editori emerge anche la preoccupazione per la crisi di liquidità dei clienti, che non riescono a pagare le fatture degli spot già messi in onda. Ritornare alla normalità non sarà facile, anche perché la sospensione degli eventi e dei concerti fa mancare un’altra fonte di finanziamento importante.
Se il potenziamento degli spazi informativi è stato in media del 54% (per commerciali e comunitarie), sono le stazioni multiregionali ad aver puntato maggiormente sulle news, incrementandole del 70%, contro il 45% dei network nazionali. Uno sforzo organizzativo che ha spinto al massimo i motori di realtà grandi e piccole, che hanno investito risorse pur private del carburante della pubblicità.
Se gli editori hanno congedato, in media, un collaboratore su tre (-34%), i risparmi sui costi del personale si sono fatti sentire soprattutto nelle aziende più strutturate: superstation (-48%) e network (-85%), mentre per le comunitarie l’impatto è stato dimezzato (-16%). Analogamente, la cassa integrazione è stata richiesta per un lavoratore su tre (-31%), con punte del -47% per le radio a copertura regionale, e ancor più elevate per superstation (-48%) e nazionali (-50%). A risentirne meno sono state le comunitarie (-18%), anche perché vengono gestite con meno di un dipendente (0,72): si basano sui collaboratori (5 in media) e soprattutto sul volontariato (7 persone, tra quelle interpellate).
L’intero resoconto dell’indagine è visionabile al seguente link.